Lettori fissi

You Tube: CMMusica, CMLibri, CMViaggi e CMGiardinaggio!

Seguite CMViaggi su Pinterest

Spotify for Podcasters - CMViaggi, CMLibri, CMRicette, CMMusica e CMSalute

CMViaggi CMLibri CMRicette CMMusica CMSalute

CMLibri su Tumblr

CMLibri su Tumblr

Bloglovin' - CMTempoLibero - CMRicette

Bloglovin' Follow Follow

giovedì 14 agosto 2025

«I vecchi e i giovani» pirandelliani con la Girgenti morta dei preti - corvi secondo i maligni (ma non siamo in un film), il papa e gli svizzeri (non gli amici in terra elvetica di CMRomanzi, che lui vorrebbe incontrare la prossima estate né Coclite, che sta seguendo le rose e CMGiardinaggio), il poveretto conoscente di CMSalute, Ignazio, le pareti ed il soffitto tremendissimi, ma non la fame per fortuna - La scorta, il Governo italiano che mal vedeva per le idee ed il governo usurpatore, il maestro elementare, la chiacchiera in paese e le zolfare, gli equini, «il principe don Ippolito Laurentano, fiero», il «fantasma», non soltanto uno dei momenti della storia marittima, i «rozzi e squallidi tabernacoli» «nella solitudine immobile», lo sgomento, la fede, i viandanti (campagnuoli e carrettieri) «che troppo spesso, con aperta o nascosta ferocia, dimostravano di non ricordarsene», «neppure un piccolo lamento in mezzo a tanto squallore», il «Lasciatemi stare!», la porca maniera - Il vescovo letterario e... quando CMLibri rifonderà l'Arcigay nuovamente ad Agrigento? - 2 città del Parco letterario Camilleri - a rischio flop culturale ed anticume? - molto noiosamente in cerca di autori di novità e sperimentazione empedoclina (zzzzzzzz)? - Ci saranno o si occuperanno di altro essendo il loro progetto poco interessato a questo? - Si preannuncia così o cambierà? - La sola collina (non tutto il patrimonio della marna bianca di altri luoghi) partorirà molto meno del topolino «buono» o sarà un progetto «gaio» senza figli e nipoti e sterile o...? - Chissà se verranno esposte nuovamente le foto di Aldo Alessandro

Ai miei figli,


  giovani oggi,


    vecchi domani.

 

 

 

Questa la dedica letteraria di Luigi Pirandello nel/del romanzo storico «I vecchi e i giovani».

 

 

 

CMRomanzi non ha figli ed è relativamente giovane ancora.

 

 

 

Parole della sezione «Parla bene Monsignore....»,

 

 

 

sui tabernacoli,

 

 

 

la giumenta,

 

 

 

dunque un equino:

 

 

 

Le folte siepi di fichidindia, o di rovi secchi, o di agavi, e le muricce qua e là screpolate erano di tratto in tratto interrotte da qualche pilastro cadente, che reggeva un cancello scontorto e arrugginito, o da rozzi e squallidi tabernacoli, i quali, nella solitudine immobile, guardati dagl’ispidi rami degli alberi gocciolanti, anzichè conforto ispiravano un certo sgomento, posti com’eran lì a ricordare la fede a viandanti — per la maggior parte campagnuoli e carrettieri — che troppo spesso, con aperta o nascosta ferocia, dimostravano di non ricordarsene. Qualche triste uccelletto sperduto veniva, col timido volo raccolto delle penne bagnate, a posarsi su essi; spiava, e non ardiva di mettere neppure un piccolo lamento in mezzo a tanto squallore.


Da un pezzo per quello stradone sfangava, sbruffando a ora a ora, la vecchia giumenta bianca di Placido Sciaralla, esortata amorevolmente dal padrone avvilito, con le mani paonazze, gronchie dal freddo, tutto ristretto in sè contro il vento e la pioggia, nella vivace uniforme di soldato borbonico: calzoni rossi, cappotto turchino.




Frase complicata sugli asinelli, 

 

 

 

«il principe don Ippolito Lauretano, fiero»,

 

 

 

il «fantasma»:




Dei rari passanti a piedi o su pigri asinelli, qualcuno che ignorava come qualmente il principe don Ippolito Lauretano, fiero e pervicace nella fedeltà al passato governo delle Due Sicilie, tenesse nel suo fèudo di Colimbètra (dove fin dal 1860 si era per onta e per dispetto relegato) una guardia di venticinque uomini con la divisa borbonica, si voltava stupito e si fermava un pezzo a mirare quel buffo fantasma emerso dall’umido barlume del crepuscolo, e non sapeva che pensarne. 

 

 

 

Questo uno dei passaggi della Parte prima - Capitolo primo.




Un altro:




— Il Papa, in Vaticano con gli Svizzeri; don Ippolito Laurentano, nel suo fèudo con Sciaralla e compagnia! 

 

 

 

Il maestro elementare,

 

 

 

ne esistono 

 

 

 

anche oggi:

 

 

 

Veramente, ecco, dichiararsi campiere soltanto, scottava un po’ al povero Sciaralla, che “nasceva bene„ e aveva la patente di maestro elementare e di ginnastica. 

 

 

 

Il Principe, 

 

 

 

mal visto per le sue idee dal Governo italiano:

 

 

 

Con alcuni più crèduli, tal’altra, si lasciava andare a confidenze misteriose: che il Principe cioè, mal visto per le sue idee dal Governo italiano, il quale — figurarsi! — avrebbe alzato il fianco a saperlo morto assassinato o derubato senza pietà, avesse davvero bisogno, nella solitudine della campagna, di quella scorta, di cui egli, Sciaralla, indegnamente era capo.

 

 

 

Pochissime righe dopo:

 

 

 

— Boja, piuttosto! — s’era sentito più volte rispondere il povero Sciaralla, il quale allora pensava con un po’ di fiele quanto fosse facile al Principe il serbare con tanta dignità e tanta costanza quel fiero atteggiamento di protesta, rimanendo sempre chiuso entro i confini di Colimbètra, mentre a lui e a’ suoi subalterni toccava d’arrischiarsi fuori a risponderne.  




E lo hanno lasciato stare? La porca maniera:

 

 

 

— Ma ora, signori miei, via! Ora che siete voi i padroni.... Lasciatemi stare! È pane, signori miei! Dite sul serio?  


Invano. Gli volevano amareggiare il sangue per forza, fingendo di non comprendere che egli poi, in fondo, non era tutto nell’abito che indossava; che sotto quell’abito c’era un uomo, un pover’uomo come tutti gli altri, costretto a guadagnarsi da vivere in qualche porca maniera.




Dedico questo passaggio letterario ad un mio conoscente, Ignazio.




Il vescovo:

 

 

 

E Sciaralla non diceva dell’alto clero con Monsignor Vescovo alla testa, il quale, si sa, per un legittimista come Sua Eccellenza, poteva considerarsi naturale alleato.

 

 

 

All'epoca forse non esistevano i Radicali,

 

 

 

l'Arcigay (quando CMLibri rifonderà 

 

 

 

l'Arcigay nuovamente 

 

 

 

ad Agrigento,

 

 

 

dopo l'esperienza di un altro ragazzo qualche anno fa?).

 

 

   

Poi il discorso si fa molto più serio,

 

 

 

con la chiacchiera in paese ed i lavoratori delle zolfare:




C’era una chiacchiera in paese, la quale di giorno in giorno si veniva sempre più raffermando, che tutti gli operai delle città maggiori dell’isola, e le contadinanze e, più da presso, nei grossi borghi dell’interno, i lavoratori delle zolfare si volessero raccogliere in corporazioni o, come li chiamavano, in fasci, per ribellarsi non pure ai signori, ma ad ogni legge, dicevano, e far man bassa di tutto. 

 

 

 

Il vescovo monsignore ricco, 

 

 

 

la fede, 

 

 

 

la religione, 

 

 

 

«l’istinto bestiale di soddisfare quaggiù tutti i bassi appetiti del corpo!»:

 

 

 

Monarchie, istituzioni civili e sociali: cose temporanee; passano; si farà male a cambiarle agli uomini o a toglierle di mezzo, se giuste e sante; sarà un male però possibilmente rimediabile. Ma se togliete od oscurato agli uomini ciò che dovrebbe splendere eterno nel loro spirito: la fede, la religione? Orbene, questo aveva fatto il nuovo governo! E come poteva più il popolo starsi quieto tra le tante tribolazioni della vita, se più la fede non glielo faceva accettare con rassegnazione e anzi con giubilo, come prova e promessa di premio in un’altra vita? La vita è una sola? questa? Le tribolazioni non avranno un compenso di là, se con rassegnazione sopportate? E allora per qual ragione più accettarle e sopportarle? Trionfi il numero allora, e prorompa l’istinto bestiale di soddisfare quaggiù tutti i bassi appetiti del corpo!

Parlava proprio bene, Monsignore. La vera ragione di tutto il male era questa. Insieme con Monsignore, che veramente, ricco com’era, sentiva poco le tribolazioni della vita, Sciaralla avrebbe voluto che tutti i poveri la riconoscessero, questa ragione.

 

 

 

Al povero conoscente di CMSalute, Ignazio, 

 

 

 

sui Monti Sicani!

 

 

 

Ma lui non soffre la fame,




ma pareti e sofftto interni di una casa popolare tremendissimi,




con balconi superiori esterni ugualmente tremendi:




Ma non riusciva a levarsi dal capo un sant’uomo, un vecchierello mendico, venuto un giorno innanzi al cancello de la villa col rosario in mano, il quale, stando ad aspettar la limosina e sentendo un lungo brontolio nel suo stomaco, gli aveva fatto notare, con un mesto sorriso:

— Senti? Non lo dico io; lo dice lui che ha fame.... 

 

 

 

La sicurezza ed il non aver paura del principe:

 

 

 

Riposava certo su lui e sul valore e la devozione de’ suoi uomini quella sicurezza del Principe, al quale poteva bastare che dicesse di non aver paura, lasciando poi agli altri il pensiero del rimanente.  




La Girgenti morta dei preti - corvi secondo i maligni:




Fortuna che finora lì a Girgenti nessuno si moveva, nè accennava di volersi muovere! Paese morto. Tanto vero — dicevano i maligni — che vi regnavano i corvi, cioè i preti. L’accidia, tanto di far bene quanto di far male, era radicata nella più profonda sconfidenza della sorte, nel concetto che nulla potesse avvenire, che vano sarebbe stato ogni sforzo per scuotere l’abbandono desolato, in cui giacevano non soltanto gli animi, ma anche tutte le cose.

 

 

 

Ma non siamo nel film «Il corvo».

 

 

 

Eccovi tutto il testo di «Parla bene Monsignore....»:

 

 

 

Capitolo Primo.


Parla bene Monsignore....


La pioggia, caduta a diluvio la notte scorsa, aveva reso impraticabile il lungo stradone, tutto a volte e risvolte, quasi in cerca di men faticose erte, di pendii meno ripidi, tra la scabra ineguaglianza della vasta campagna solitaria.

Il guasto dell’intemperie appariva tanto più triste, in quanto, qua e là, già era evidente il disprezzo e quasi il dispetto della cura di chi aveva tracciato e costruito la via per facilitare agli altri il cammino tra le asperità dei luoghi, con quei gomiti e quelle giravolte, con le opere or di sostegno, or di riparo. I sostegni eran crollati, i ripari abbattuti, per dar passo a dirupate scorciatoje.

Piovigginava ancora a scosse, nell’alba livida, tra il vento che spirava gelido, a raffiche, da ponente. E a ogni raffica, su quel lembo di paese emergente or ora, appena, cruccioso, dalle fosche ombre umide della notte tempestosa, pareva scorresse un lungo brivido, dalla città, fitta di case gialligne, alta e velata sul colle, a le vallate, ai poggi, ai piani irti ancora di stoppie annerite, fino al mare laggiù, torbido e rabbuffato.

Pioggia e vento parevano un’ostinata crudeltà del cielo sopra la desolazione di quelle piagge estreme della Sicilia, su le quali Girgenti, nei resti miserevoli della sua antichissima vita raccolti lassù, si levava silenziosa e attonita superstite nel vuoto d’un tempo senza vicende, nell’abbandono d’una miseria senza riparo.

Le folte siepi di fichidindia, o di rovi secchi, o di agavi, e le muricce qua e là screpolate erano di tratto in tratto interrotte da qualche pilastro cadente, che reggeva un cancello scontorto e arrugginito, o da rozzi e squallidi tabernacoli, i quali, nella solitudine immobile, guardati dagl’ispidi rami degli alberi gocciolanti, anzichè conforto ispiravano un certo sgomento, posti com’eran lì a ricordare la fede a viandanti — per la maggior parte campagnuoli e carrettieri — che troppo spesso, con aperta o nascosta ferocia, dimostravano di non ricordarsene. Qualche triste uccelletto sperduto veniva, col timido volo raccolto delle penne bagnate, a posarsi su essi; spiava, e non ardiva di mettere neppure un piccolo lamento in mezzo a tanto squallore.

Da un pezzo per quello stradone sfangava, sbruffando a ora a ora, la vecchia giumenta bianca di Placido Sciaralla, esortata amorevolmente dal padrone avvilito, con le mani paonazze, gronchie dal freddo, tutto ristretto in sè contro il vento e la pioggia, nella vivace uniforme di soldato borbonico: calzoni rossi, cappotto turchino.

— Coraggio, Titina!

E il fiocco del berretto a barca, di bassa tenuta, pendulo sul davanti, andava in qua e in là, quasi battendo la solfa al trotto stracco della povera giumenta. Dei rari passanti a piedi o su pigri asinelli, qualcuno che ignorava come qualmente il principe don Ippolito Lauretano, fiero e pervicace nella fedeltà al passato governo delle Due Sicilie, tenesse nel suo fèudo di Colimbètra (dove fin dal 1860 si era per onta e per dispetto relegato) una guardia di venticinque uomini con la divisa borbonica, si voltava stupito e si fermava un pezzo a mirare quel buffo fantasma emerso dall’umido barlume del crepuscolo, e non sapeva che pensarne.

Passando innanzi allo stupore di questi ignoranti, Sciaralla, capitano di quella guardia, non ostante il freddo e la pioggia ond’era tutto abbrezzato e inzuppato, si drizzava su la vita, assumeva un contegno marziale; marzialmente, se capitava, porgeva con la mano il saluto a qualcuno di quei tabernacoli; poi, chinando gli occhi per guardarsi le punte tirate su a forza e insegate dei radi baffetti neri (indegni baffi!) sotto il robusto naso aquilino, cangiava l’amorevole esortazione alla bestia in un: “Su! su!„ imperioso, seguito da una stratta alla briglia e da un colpetto di sproni giunti, a cui talvolta Titina — mannaggia! — sforzata così nella lenta vecchiezza, soleva rispondere con poco decoro.

Ma questi incontri, tanto graditi al Capitano, avvenivano molto di raro. Tutti ormai sapevano di quel corpo di guardia a Colimbètra, e ne ridevano se n’indignavano.

— Il Papa, in Vaticano con gli Svizzeri; don Ippolito Laurentano, nel suo fèudo con Sciaralla e compagnia!

E Sciaralla, che dentro la cinta di Colimbètra si sentiva a posto, capitano sul serio, fuori non sapeva più qual contegno darsi per sfuggire alle beffe e alle ingiurie.

Già cominciamo che tutti lo degradavano, chiamandolo caporale. Stupidaggine! indegnità! Perchè lui comandava ben venticinque uomini (ohè, venticinque!) e bisognava vedere come li istruiva in tutti gli esercizii militari e come li faceva trottare. E poi.... Ma scusate, tutti i signoroni non tengono forse nelle loro terre una scorta di campieri in divisa? Veramente, ecco, dichiararsi campiere soltanto, scottava un po’ al povero Sciaralla, che “nasceva bene„ e aveva la patente di maestro elementare e di ginnastica. Tuttavia, a colorar così la cosa s’era piegato talvolta a malincuore, per non esser qualificato peggio. Campiere, sì.... campiere capo.

— Caporale?

— Capo! capo! Che c’entra caporale? Ammettete allora che sia milizia?

Di chi? come? e perchè vestita a quel modo? Sciaralla si stringeva ne le spalle, socchiudeva gli occhi, sospirava:

— Un’uniforme come un’altra.... Capriccio di Sua Eccellenza, che volete farci?

Con alcuni più crèduli, tal’altra, si lasciava andare a confidenze misteriose: che il Principe cioè, mal visto per le sue idee dal Governo italiano, il quale — figurarsi! — avrebbe alzato il fianco a saperlo morto assassinato o derubato senza pietà, avesse davvero bisogno, nella solitudine della campagna, di quella scorta, di cui egli, Sciaralla, indegnamente era capo. Restava però sempre da spiegare perchè quella scorta dovesse andar vestita di quell’uniforme odiosa.

— Boja, piuttosto! — s’era sentito più volte rispondere il povero Sciaralla, il quale allora pensava con un po’ di fiele quanto fosse facile al Principe il serbare con tanta dignità e tanta costanza quel fiero atteggiamento di protesta, rimanendo sempre chiuso entro i confini di Colimbètra, mentre a lui e a’ suoi subalterni toccava d’arrischiarsi fuori a risponderne.

Invano, a quattr’occhi, giurava e spergiurava, che mai e poi mai egli, al tempo dei Borboni, avrebbe indossato quell’uniforme, simbolo di tirannide, allora, simbolo dell’oppressione della patria; e soggiungeva, scotendo le mani:

— Ma ora, signori miei, via! Ora che siete voi i padroni.... Lasciatemi stare! È pane, signori miei! Dite sul serio?

Invano. Gli volevano amareggiare il sangue per forza, fingendo di non comprendere che egli poi, in fondo, non era tutto nell’abito che indossava; che sotto quell’abito c’era un uomo, un pover’uomo come tutti gli altri, costretto a guadagnarsi da vivere in qualche porca maniera. Con gli sguardi, coi sorrisi, componendo il volto a un’aria di vivo interessamento ai casi altrui, cercava in tutti i modi di stornar l’attenzione da quell’abito; poi, di tutte quelle arti che usava, di tutte quelle smorfie che faceva, si stizziva fieramente con sè stesso, perchè, a guardar quell’abito senza alcuna idea, gli pareva bello, santo Dio! e che gli stèsse proprio bene; e quasi quasi gli cagionava rimorso il dover fingersi afflitto di portarlo.

Aveva sentito dire che su, a Girgenti, un certo “funzionario„ continentale, barbuto e bilioso, aveva pubblicamente dichiarato con furiosi gesti, che una tale sconcezza, una siffatta tracotanza, un così patente oltraggio alla gloria della rivoluzione, al governo, alla patria, alla civiltà, non sarebbero stati tollerati in alcun’altra parte d’Italia, nè forse in alcun’altra provincia della stessa Sicilia, che non fosse questa di Girgenti, così.... così.... — e non aveva voluto dir come, a parole; con le mani aveva fatto un certo atto....

Oh Dio, ma proprio per lui, per quell’uniforme borbonica dei venticinque uomini di guardia, tanto sdegno, tanto schifo? O perchè non badavan piuttosto codesti indignati al signor sindaco, ai signori assessori e consiglieri comunali e provinciali e ai più cospicui cittadini, che venivano a gara, tutti parati e impettiti, a fare ossequio a S. E. il Principe di Laurentano, che li accoglieva ne la villa come un re nella reggia? E Sciaralla non diceva dell’alto clero con Monsignor Vescovo alla testa, il quale, si sa, per un legittimista come Sua Eccellenza, poteva considerarsi naturale alleato.

Sciaralla gongolava e gonfiava per tutte queste visite; e nulla gli era più gradito che impostarsi ogni volta su l’attenti a presentar le armi. Se veniva Monsignore, se veniva il sindaco, la sentinella chiamava dal cancello il drappelletto dal posto di guardia vicino, e un primo saluto, là, in piena regola, con un bel fracasso d’armi, levate e appiedate di scatto; un altro saluto poi, sotto le colonne del vestibolo esterno de la villa, al richiamo dell’altra sentinella del portone. Rispetto al salario, era così poco il da fare, che tanto lui quanto i suoi uomini se ne davano apposta, cercandone qua e là il pretesto; e una delle faccende più serie erano appunto questi saluti alla militare, i quali servivano a meraviglia a toglier loro l’avvilimento di vedersi — così ben vestiti com’erano — inutili affatto.

In fondo, con tali e tanti protettori, Sciaralla avrebbe potuto ridersi della baja che gli dava la gente minuta, se, come tutti i vani, non fosse stato desideroso d’esser veduto e accolto da ognuno con grazia e con favore. Non sapeva ridersene poi, e anzi da un pezzo in qua ne era anche più d’un po’ costernato per un’altra ragione.

C’era una chiacchiera in paese, la quale di giorno in giorno si veniva sempre più raffermando, che tutti gli operai delle città maggiori dell’isola, e le contadinanze e, più da presso, nei grossi borghi dell’interno, i lavoratori delle zolfare si volessero raccogliere in corporazioni o, come li chiamavano, in fasci, per ribellarsi non pure ai signori, ma ad ogni legge, dicevano, e far man bassa di tutto.

Più volte, essendo di servizio nell’anticamera, ne aveva sentito discutere nel salone. Il Principe — s’intende — ne dava colpa al governo usurpatore, che prima aveva gabbato o poi affamato le popolazioni dell’isola con imposte e manomissioni inique e spudorate; gli altri gli facevano coro; ma Monsignor Vescovo pareva a Sciaralla che meglio di tutti sapesse scoprir la piaga.

Il male, il vero male, il più gran male fatto dal nuovo governo non consisteva tanto nell’usurpazione, che faceva ancora e giustamente sanguinare il cuore di S. E. il Principe di Laurentano. Monarchie, istituzioni civili e sociali: cose temporanee; passano; si farà male a cambiarle agli uomini o a toglierle di mezzo, se giuste e sante; sarà un male però possibilmente rimediabile. Ma se togliete od oscurato agli uomini ciò che dovrebbe splendere eterno nel loro spirito: la fede, la religione? Orbene, questo aveva fatto il nuovo governo! E come poteva più il popolo starsi quieto tra le tante tribolazioni della vita, se più la fede non glielo faceva accettare con rassegnazione e anzi con giubilo, come prova e promessa di premio in un’altra vita? La vita è una sola? questa? Le tribolazioni non avranno un compenso di là, se con rassegnazione sopportate? E allora per qual ragione più accettarle e sopportarle? Trionfi il numero allora, e prorompa l’istinto bestiale di soddisfare quaggiù tutti i bassi appetiti del corpo!

Parlava proprio bene, Monsignore. La vera ragione di tutto il male era questa. Insieme con Monsignore, che veramente, ricco com’era, sentiva poco le tribolazioni della vita, Sciaralla avrebbe voluto che tutti i poveri la riconoscessero, questa ragione. Ma non riusciva a levarsi dal capo un sant’uomo, un vecchierello mendico, venuto un giorno innanzi al cancello de la villa col rosario in mano, il quale, stando ad aspettar la limosina e sentendo un lungo brontolio nel suo stomaco, gli aveva fatto notare, con un mesto sorriso:

— Senti? Non lo dico io; lo dice lui che ha fame....

La costernazione di Sciaralla, per quel grave pericolo che sovrastava a tutti i signori, proveniva più che altro dalla sicurezza con cui il Principe, là nel salone, pareva lo sfidasse. Riposava certo su lui e sul valore e la devozione de’ suoi uomini quella sicurezza del Principe, al quale poteva bastare che dicesse di non aver paura, lasciando poi agli altri il pensiero del rimanente.

Fortuna che finora lì a Girgenti nessuno si moveva, nè accennava di volersi muovere! Paese morto. Tanto vero — dicevano i maligni — che vi regnavano i corvi, cioè i preti. L’accidia, tanto di far bene quanto di far male, era radicata nella più profonda sconfidenza della sorte, nel concetto che nulla potesse avvenire, che vano sarebbe stato ogni sforzo per scuotere l’abbandono desolato, in cui giacevano non soltanto gli animi, ma anche tutte le cose. E a Sciaralla parve d’averne una prova confortante nel triste spettacolo che gli offriva, quella mattina la campagna intorno e quello stradone.

 

 

 

Si preannuncia bocciatissimo,

 

 

 

finora,

 

 

 

il Parco letterario Andrea Camilleri, 

 

 

 

speriamo non lo sia,

 

 

 

se ci sarà più realismo basato sull'innovazione, 

 

 

 

su un amore oltre ogni confine,

 

 

 

sulla conoscenza dei territori e dei miglioramenti innovativi da fare ed effettuare. 

 

 

 

Si prospetta davvero molto noioso il Parco letterario Andrea Camilleri praticamente senza Porto Empedocle (Ag - provincia di Agrigento), 

 

 

 

con le brutture di Porto Empedocle,

 

 

 

«non elogiatissime»,


 

 

a cui si aggiungono le ultime arrivate recentissime sulla spiaggia di Marinella e «stantìe e pochissimo fresche»,

 

 

 

senza la bellissima Torre Carlo V del centro di Porto Empedocle,

 

 

 

senza la chiesetta - auditorium,

 

 

 

ugualmente nel centro di Porto Empedocle;

 

 

 

con Punta Piccola, 

 

 

 

a Realmonte;

 

 

 

con la Villa romana antica di Durrueli, 

 

 

 

a Realmonte, 

 

 

 

nell'Agrigentino, 

 

 

 

con il bianco della Scala dei Turchi,

 

 

 

a Realmonte,

 

 

 

purtroppo ancora senza un Parco della marna bianca,

 

 

 

fra Punta Bianca,

 

 

 

ad Agrigento;

 

 

 

la Scala dei turchi;

 

 

 

la Dama bianca di Siculiana, 




nel Libero consorzio di Agrigento,




e Capo Bianco,




a Cattolica Eraclea,




quasi ai confini di Ribera,




sulla costa agrigentina,




da candidare assieme a Patrimonio Unesco dell'umanità.

 
 
 

Grazie a Lorenzo Rosso sulla pagina «Porto Empedocle»




ed alle pagine «Cultura»

 

 

 

e «Valle dei templi»

 

 


di AgrigentoOggi;

 

 

 

a WikiSource,

 

 

 

a Wikipedia.

Nessun commento:

Posta un commento